Cenni storici
“e il Caravaggio disse che tanta
manifattura gli era fare un quadro
buono di fiori come di figure”
Il termine ‘natura morta’ allude alla raffigurazione di soggetti inanimati quali frutti, fiori, selvaggina, tappeti, tendaggi, strumenti musicali o di uso scientifico, oggetti preziosi o domestici, secondo un’accezione che, nella sua forma primitiva legata in Italia al caravaggismo, può essere più correttamente interpretata dal termine ‘natura in posa’. Anche le versioni divenute abituali negli altri Paesi di lingua latina (nature morte in francese, naturaleza muerta in spagnolo) sono concettualmente poco aderenti al significato intimo di queste rappresentazioni, descritto meglio dalle terminologie adottate nei Paesi di lingua anglosassone (still-life in inglese, stilleben in tedesco, stilleven in olandese).
In Italia il genere pittorico della natura morta ha origini antichissime, esso trova infatti i suoi primi esempi documentati nella pittura murale di epoca romana rinvenuta a Ercolano: sono brani pittorici di straordinaria modernità raffiguranti gli xenia, le offerte di cibo per gli ospiti, prototipi venuti alla luce durante gli scavi operati nel Settecento, soggetti che dovevano decorare molte domus della città di Roma.
Di questa pittura murale si perse il ricordo perché l’arte paleocristiana e medievale guardarono nella direzione del sacro, ma fu a tali esempi profani che si ispirarono i pittori attivi tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, in quel contesto di rinnovato interesse per la natura che si era sviluppato nella seconda metà del XV secolo dopo l’invenzione della stampa ad opera di Johannes Gutenberg. Grazie all’indispensabile lavoro filologico di alcuni grandi umanisti, tra il 1469 e il 1499 furono infatti recuperate, tradotte, stampate e diffuse opere fondamentali per la botanica, la medicina e la farmacopea medioevale e rinascimentale come la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, l’Herbarium di Apuleio Platonico, il De Historia plantarum di Teofrasto e il De materia medica di Pedanio Dioscoride.
Per tutto il XVI secolo si assistette a un fiorire di trattati scientifici volti a classificare quel mondo naturale che, dopo la scoperta delle Americhe, si mostrava assai più complesso di quanto gli antichi testi avevano riportato. Ne trassero vantaggio soprattutto le conoscenze botaniche, così che furono prodotti numerosi Herbaria figurati, alcuni ispirati alle teorie medico-filosofiche del naturalista tedesco Paracelso (1493-1541), altri più rigorosi come quello di Pietro Andrea Mattioli (1500-1577), che si avvalse dell’opera del pittore Giorgio Liberale da Udine per illustrare circa 1200 piante officinali nei suoi Commentarii all’opera di Pedanio Dioscoride.
Questo tipo di pittura naturalistica si volse rapidamente nella direzione di una propria autonomia, avulsa dagli obbligati rapporti di subalternità a rappresentazioni figurative religiose e profane; essa raggiunse il suo massimo splendore nel Seicento, nell’ambito di un interesse per i generi minori che coinvolse anche il paesaggio, la scene di vita quotidiana e la battaglia, secondo una tendenza nata nei Paesi Bassi con l’affermazione della nuova classe emergente della borghesia, favorita dalla riforma luterana e dalle teorie di Calvino che prevedevano la proibizione del culto delle immagini religiose. All’inizio del XVII secolo le rappresentazioni di fiori, frutti, mercati e altri soggetti similari si diffusero rapidamente in tutta Europa, raggiungendo anche quei Paesi di fede e cultura cattolica nei quali la committenza artistica era ancora appannaggio del clero e dell’aristocrazia.
In Italia l’interesse naturalistico in pittura trovò inizialmente terreno fertile negli effervescenti climi culturali di Venezia, Firenze, Roma, Bologna e Milano, con esordi e sviluppi molto differenti tra loro.
Già tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo Albrecht Dürer aveva importato a Venezia il gusto nordico per l’osservazione e la ripresa dal naturale di fiori, animali di terra e di acqua aprendo la strada all’illustrazione scientifica di un pittore successivo come il veronese Jacopo Ligozzi (1547-1627).
I prodromi della pittura naturalistica lombarda sono riscontrabili nell’adesione al realismo formulata da pittori bresciani del Rinascimento come Girolamo Romanino (1485-1566), Alessandro Bonvicino detto il Moretto (1498-1554) e Giovanni Gerolamo Savoldo (1480 circa-post 1548), tuttavia la natura morta come genere autonomo comparve per la prima volta solo sul finire del Cinquecento. Ne costituiscono gli esempi più validi e noti le tele del cremonese Vincenzo Campi (1536-1591), dove fruttivendole, pescivendoli e pollivendoli raffigurano momenti di vita quotidiana ispirati alle scene di mercato dell’olandese Pieter Aertsen (1508-1575) e del fiammingo Joachim Beuckelaer (1533-1574), ma soprattutto la Fruttiera di persici del milanese Ambrogio Figino (1553-1608), vero incunabolo di questo genere pittorico in Italia.
L’Accademia del Naturale fondata dai Carracci a Bologna negli anni Ottanta del Cinquecento non fu all’insegna della speculazione scientifica ma in aperta polemica con le esagerazioni formali del tardo-manierismo e con la finalità principale di insegnare a dipingere dal vero; essa segnò un punto di svolta importantissimo per gli esordi della pittura naturalistica con scenografie di intenso realismo come quelle inscenate da Annibale Carracci con il Mangiafagioli della Galleria Colonna di Roma, il Ragazzo che beve del Museum of Art di Cleveland, le Macellerie della Christ Church Picture Gallery di Oxford e del Kimbell Art Museum di Fort Worth.
Il virtuosismo mimetico di quest’ultimo trovò la sua massima espressione nella Firenze medicea, quando i granduchi di Toscana gli affidarono il compito di illustrare i modelli adatti alle loro esigenze di catalogazione fitologica e zoologica; delle sue tavole dipinte, esempi altissimi di pittura applicata alla scienza, fu grande estimatore il naturalista, botanico ed entomologo bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605). Pur se occorre aspettare il Settecento con Linneo per avere una classificazione scientificamente valida degli organismi viventi, l’apporto degli studi di Aldrovandi deve essere considerato di importanza fondamentale per lo sviluppo delle conoscenze naturalistiche nel corso del XVII secolo.
Quello fiorentino fu un interesse scientifico che trovò una chiara eco nell’importante volume che descrive il giardino di Enrico IV, illustrato nel 1608 da Pierre Vallet (1575-dopo il 1657), ricco di disegni a tema botanico e dedicato alla regina Maria de’ Medici.
A Roma l’interesse scientifico per la natura nacque all’inizio del XVII secolo con la fondazione dell’Accademia dei Lincei, cui diedero un apporto fondamentale dapprima Federico Cesi e poi, dopo l’ascesa al soglio pontificio di Urbano VIII, il cardinale Francesco Barberini e Cassiano dal Pozzo con la cerchia di artisti e intellettuali che lo frequentavano. Tra questi, oltre allo stesso Jacopo Ligozzi, si ricordano Giovanna Garzoni (1600-1670), Anna Maria Vaiana (ca. 1600-dopo il 1643) e Daniel Seghers (1590-1661). L’opera più famosa e interessante, ricca di illustrazioni e incisioni di famosi artisti, è quella che nel 1633 il gesuita Giovan Battista Ferrari dedicò a Francesco Barberini, nota come De florum cultura.
Contrariamente a quanto avvenne agli esordi, quando i naturalia costituirono delle sperimentazioni attuate da artisti solitamente impegnati in tematiche differenti come Michelangelo Merisi detto Caravaggio (1571-1610), Tommaso Salini (1575-1625), Bartolomeo Cavarozzi (1590 circa-1625), Pietro Paolo Bonzi detto il Gobbo dei Carracci (1576-1636) e altri, dagli anni Quaranta del Seicento gli artisti cominciarono a dedicarcisi in forma quasi esclusiva.
La natura morta raggiunse il suo massimo splendore con l’avvento del Barocco, quando assunse una funzione esclusivamente decorativa e allargò il proprio repertorio iconografico a soggetti meno convenzionali come la natura viva con animali domestici e selvatici, sottoboschi, scenografie d’interni, tappeti, tendaggi, oggetti preziosi, strumenti musicali e scientifici, ecc.
La grande stagione della natura morta italiana continuò nella prima metà del Settecento alimentando il gusto rocaille di vezzose raffigurazioni floreali e ornitologiche, una moda particolarmente sentita a Venezia, dove si mescolò con elementi orientaleggianti creando una prolifica corrente pittorica a lungo definita impropriamente ‘guardesca’.
Nella seconda metà del XVIII secolo il gusto per i naturalia esaurì gradatamente il proprio slancio in tutta penisola, lasciando spazio a nuove mode e a nuove tendenze espressive, prima fra tutte quella fondata sul neoclassicismo.
